giovedì 27 settembre 2007

COMING OUT E FUGA

Quasi in prosecuzione del post “Essere gay in diversi contesti”, vorrei fermarmi un po’ su un elemento che ho ritrovato piuttosto frequentemente nell’esperienza dei ragazzi gay, si tratta dell’idea della fuga, chiaramente non della fuga d’amore ma della fuga da casa, dalla famiglia, dall’ambiente sociale dove normalmente vivono. L’idea della fuga non viene dalla fantasia o dall’illusione di trovare altrove situazioni ideali di vita, ma viene esclusivamente dalle difficoltà reali, talvolta pesantissime, che si incontrano dove si vive abitualmente. Ieri sera parlavo con uno dei miei amici etero (amici veri) e parlavo con lui di queste cose. A un certo punto mi ha guardato e mi ha detto: se i miei figli fossero gay non è certo da me che incontrerebbero chiusure, ma penso che avrebbero comunque una vita difficile. Questo mio amico ha due figli e quando lo vedo in famiglia ho l’impressione che sia nato per fare il papà, nessun atteggiamento pedagogico, un lasciarsi coinvolgere nel gioco, un saper rispondere sempre con un sorriso, un non perdere mai la pazienza. Questo mio amico, oltre me, ha conosciuto altri gay della sua stessa età mantenendo con loro dei rapporti affettivi seri, fatti di rispetto e di affetto. Ma, bisogna dirlo chiaramente, si tratta di cose rare. Molte famiglie (e l’ho visto in concreto) non hanno in pratica nessun dialogo con i figli e mantengono con loro dei rapporti che non hanno nulla di affettivo. Ci sono ragazzi (non solo gay) che a casa loro non si sentono affatto la persona più importante, perché hanno genitori che tendono ad essere dominanti e invadenti e queste cose, che già si tollerano a stento quando si è molto giovani, a 24-25 anni e oltre sono sentite come delle vere e proprie forme di prevaricazione. Se poi si aggiunge che “molto spesso” i ragazzi gay, se pure si dichiarano con qualche amico (il che tra l’altro non è assolutamente frequente) non si dichiarano praticamente mai coni loro genitori. Aggiungo che, se poi un ragazzo percepisce la disistima dei genitori nei suo confronti per qualche altra ragione, ben difficilmente potrà avere la pur minima disponibilità a fare con loro un discorso chiaro. In queste situazioni l’idea della fuga diventa insistente: Andare via! Cambiare aria a qualunque costo! In genere non si tratta di un’idea estemporanea ma di del risultato di un ragionamento purtroppo giusto. In sostanza un ragazzo gay ha l’impressione che siccome la sua autonomia economica tarderà fino ai 30 anni e talvolta anche oltre, “tutta” la vita reale cioè quella affettiva sarà inevitabilmente rinviata a quell’età. In altri termini un ragazzo gay che vive in condizioni difficili ha piena coscienza che per lui tutto il tempo tra i 16 e i 30, e anche 35 anni, sarà niente altro che una lunghissima vigilia nella quale brucerà la sua giovinezza senza vivere sostanzialmente la sua vita. E a quell’età la privazione di una vita affettiva vera costituisce una sofferenza forte. Vedere bruciare il proprio tempo giorno per giorno porta a un profondo senso di frustrazione. Ecco il significato vero della fuga! Purtroppo i ragionamenti che spingono i ragazzi gay verso l’idea della fuga non sono fantasie negative ma sono fondati sulla realtà, anche se poi non esiste nessuna possibilità reale di attuare questa fuga al momento in cui la si concepisce. Perchè andare via da casa contro il parere della propria famiglia è una scelta senza ritorno e quindi se non c’è un’indipendenza economica seria (cioè una condizione di lavoro stabile) non ci può essere nessuna fuga. In questa situazione “reale” (non sto descrivendo l’Inferno di Dante, ma cose che sento ogni giorno) tanti ragazzi si pongono il problema se non abbia più senso fingere, almeno finché non si veda molto prossima la meta dell’indipendenza economica. Francamente, in situazioni del genere, il “fingere” non è un inganno ma una forma di legittima difesa. Un ragazzo mi ha fatto notare che “fingere è disonesto” ma devo aggiungere che a mio modo di vedere in certe situazioni fingere è addirittura un dovere perché in risposta a un atto di onestà radicale come l’outing in situazioni pericolose (che certe volte maschera un certo autocompiacimento) si posso trovare forme di ostilità e di ipocrisia così sgradevole che “dopo” ci si pente profondamente di aver confidato nella capacità altrui di capire.

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