venerdì 14 novembre 2014

IL ROMANZO DI UN INVERTITO NATO (quarta parte)

L’indomani, quando ci alzammo, non osavamo scambiarci un solo sguardo, la vergogna era subentrata momentaneamente ai nostri folli ardori e l’aria fresca del mattino ci aveva fatto smaltire la sbornia. Per tutta la mattina non scambiammo che qualche parola ma la sera, dopo che andammo a letto, soli nell’oscurità profonda, il desiderio mi assalì di nuovo, mi alzai trattenendo il respiro e andai a trovarlo.
Era sveglio e mi aspettava, così mi disse.
Durante quella notte prolungammo al massimo la nostra voluttà e credo anche che nessuno sia mai stato né più innamorato né più ardente di come eravamo noi. Ci torcevamo negli spasimi della lussuria, quasi deliranti, e le mie carezze eccitavano in lui tale voluttà che mi prese un piede e follemente lo baciò.
In questa notte venne meno ogni freno, e passammo quasi tutte le notti uno nel letto dell’altro ad abbracciarci e a coccolarci. “Che belle guance hai, mi diceva, sono più dolci di quelle delle donne, e i piedi, si direbbero quelli di un bambino”. Questi discorsi mi facevano trasalire dalla gioia ; non desideravo più di essere una donna, perché trovavo questa passione terribile molto più saporosa e gradevole, superiore a quello che può offrire l’amore più conosciuto, che d’altra parte non mi attirava affatto.
Mi innamorai talmente di questo bel ragazzo che arrivai ad amarlo più di qualunque cosa al mondo e non ebbi pensieri che per lui. Volli vederlo bello e ben sistemato; gli feci fare una uniforme nuova ed elegante a mie spese e volli vederlo gentile, profumato e perfettamente in ordine. Non mi mancava il denaro e lo spendevo a piene mani e senza rimpianto per lui. All’inizio non voleva accettare niente da me, ma poi io lo forzavo e prendere quello che gli regalavo. Lui non chiedeva mai niente ma io sapevo di che cosa aveva bisogno e sapevo prevenire tutti i suoi desideri. Volevo che mangiasse con noi, ma non volle, per non infastidire i miei compagni e perché qualche maligno non sospettasse della nostra amicizia troppo ardente. Io mi staccavo il più che potevo dai miei compagni trovando molti pretesti per assentarmi e non prendere parte ai loro divertimenti.
Mi isolavo completamente da loro quando loro andavano a passeggio o al teatro; mi chiudevo nella camera mobiliata che avevo preso in affitto in città e dove il mio amico veniva a raggiungermi soprattutto la domenica e i giorni di festa. Lì c’erano dissolutezze, pranzi raffinati e cene carine testa a testa; e quasi tutto finiva nello stesso modo.
Il pensiero del mio amico mi occupava incessantemente e non mi abbandonava mai; avrei sacrificato tutto per lui, e poi prendevamo piacere l’uno dell’altro solo nel modo più innocente, voglio dire meno criminale.
Non era abituato ai profumi, alle acque profumate in cui io mi immergevo e pur essendo sempre perfettamente pulito non si riconosceva in raffinatezze di questo tipo che comunque lo affascinavano. Secondo la moda, io portavo delle camicie da notte di seta a cordoni, che avevano un buon profumo ed erano così dolci da toccare! Gli alimenti forti e il buon vino di cui lo nutrivo agivano potentemente su questa natura che non si riconosceva nella vita raffinata e dolce ma ne sentiva tutta la voluttà.
Quando veniva a casa, io ero quasi sempre a letto; mi baciava dicendo: “O Dio! Che moglie carina saresti! Ma, che importa? Tu sei comunque la mia mogliettina!” E nell’oscuro cubicolo sussurravamo, ci accarezzavamo senza sosta e ci scambiavamo caldi baci nel gran letto sul quale c’era un lino bianco e sottile che avevo portato dalla casa di mio padre. Molto diverso dal lenzuolo ruvido dei soldati.
Godevo poi del massimo piacere quando di domenica o nei giorni di festa, ci lavavamo insieme nell’acqua calda dei bagni di questa città. Nella stessa stanzetta c’erano due vasche la cui acqua annusavamo, ed era profumo di tabacco. Spesso ci stendevamo nella stessa vasca e restavamo abbracciati a lungo nell’acqua calda.
Il mio amico si abituò veramente a me, tanto che non poteva fare a meno di me come io non potevo fare a meno di lui. Non era mai stato così amato e non aveva mai gustato insieme tutti i piaceri che io gli offrivo. Facevamo anche delle escursioni in carrozza cabriolet nei dintorni della città. Lui guidava attraverso i campi illuminati dalla luna e noi gustavamo una felicità perfetta.
Voleva anche mostrarmi la sua amicizia e testimoniarmi che pensava a me come a se stesso. Un giorno in una della nostre passeggiate di reggimento, saltò un enorme fossato per darmi un grappolo d’uva che io desideravo; in conclusione, mai dei veri amanti sono stati così felici e hanno avuto in cuore una passione più grande della nostra. L’orribile e maledetto ardore che mi bruciava, fin dalla prima infanzia, aveva alla fine trovato la sua strada e il suo sviluppo e aveva trascinato con sé un essere veramente incolpevole dei suoi errori e che solo una maledetta passione aveva morso e avvelenato. Mi sono spesso rimproverato di aver reso colpevole di tali diversità e di avere demoralizzato col mio esempio e la mia influenza un ragazzo che forse non sospettava nemmeno delle passioni così abominevoli. Comunque allora non pensavo a nulla e non trovavo nella mia condotta nulla di condannabile. Solo più tardi il rimorso mi ha afferrato e ho amaramente rimpianto il mio errore e il suo.
Il nostro anno di servizio militare volgeva ormai al termine e (cosa che un anno prima avevo creduto impossibile) vedevo approssimarsi la mia partenza con un vero terrore, l’idea di dovermi separare per parecchio tempo, se non per sempre, dal mio amico, mi era insopportabile, e spesso la notte ne piangevamo insieme.
Lui doveva ancora fare parecchi anni e vedeva con dolore il momento di restare solo e solato lì dove aveva avuto un amico così fortemente attaccato a lui. Non vi dirò tutto quello che abbiamo sofferto allora e nei giorni che precedettero la nostra partenza. Io avevo molto trascurato i miei compagni negli ultimi tempi e benché essi non sospettassero nulla, vedevano con dispiacere che o preferivo un ragazzo che loro non consideravano come uno del nostro rango.
Alla fine il giorno terribile arrivò, ci salutammo nella nostra camera dove avevamo passato tante belle ore e io ritardai la mia partenza per poter godere una volta ancora del mio caro ed amato amico. Gli lasciai tutto il denaro che avevo e anche molti oggetti come ricordi e gli raccomandai di scrivermi il più spesso possibile, lui me lo promise e alla fine partii.
Al ritorno nella mia casa paterna, provai una spaventosa sensazione di vuoto e le abitudini della famiglia mi sembrarono insopportabili. Tutti mi accolsero nel modo più caloroso e fui coccolato nel modo più tenero. I miei nervi erano distrutti e una malinconia insuperabile mi teneva invincibilmente prostrato, ebbi delle crisi e delle febbri nervose talmente forti che mi consigliarono di cambiare aria per qualche tempo e di andare nell’Italia meridionale. Tutto fu inutile, la mia sola consolazione era nelle lettere che ricevevo ogni tanto.
Comunque, dopo tre mesi tornai perfettamente in salute e cominciai ad occuparmi di nuovo di pittura e di letteratura, cose che mi interessavano molto. L’immagine del mio amico si sbiadì ben presto e perse tutto il suo charme e la sua vivacità. Mi scriveva ancora qualche volta ma io non rispondevo che a lunghi intervalli con lettere via via più fredde. Smise ben presto di scrivere e io non ne fui gran che dispiaciuto.
Sei mesi dopo la mia partenza, il suo reggimento cambiò guarnigione e lui fu ucciso con un colpo di pistola da uno dei suoi compagni ubriachi che aveva avuto una discussione con lui su una faccenda relativa al servizio. Morì sul colpo sulla strada bordata di abeti che si stende tra la città e la fortezza. Il suo assassino fu condannato al carcere a vita. Non ho rimpianto quella morte, che ho appreso dai giornali e della quale ho saputo dei dettagli da un sottufficiale che ho incontrato più tardi. L’amicizia troppo ardente che avevo avuto per lui si era consumata anch’essa e non ne restavano neppure le ceneri. Non avrei avuto nessun piacere nel rivederlo e mi sarei vergognato per lui e per me. La terra conserverà questo segreto e solo queste pagine ve lo faranno conoscere. Non ho detto che la pura e semplice verità, siete libero di non crederci; questo denudamento vi sembrerà romanzesco ma è comunque molto reale.
Ho vissuto sempre in solitudine, vergine, e senza nessun gusto per la vita dalla quale non ricevo alcuna gioia. Il desiderio dell’uomo mi perseguita ancora, ma non avendo più occasione di lasciarmi andare non ricadrò quasi sicuramente nell’orribile errore dei miei sensi. Non avrò famiglia, né figli, mai. Tutti sono sorpresi di vedermi triste e depresso alla mia età, con la mia figura, nella mia posizione. Se voi mi conosceste, Signore, condividereste questa sorpresa? Non credo. Tutti si tormentano per sapere la causa della mia tristezza e della mia desolazione. Io mi sono quasi ritirato dal mondo e vivo, con gran stupore di tutti, in una solitudine quasi completa. La mia salute si indebolisce parecchio, cosa che constato con piacere, perché anche se ho paura della morte, vorrei già essere morto.
Perdonatemi, Signore, per queste pagine orribilmente scritte, ma non le ho nemmeno rilette, perché se lo facessi non le spedirei più. Una malattia così terribile dell’anima non meritava forse di essere descritta o almeno conosciuta dal gran raccoglitore di documenti umani del nostro tempo? Non so se voi potrete cavare qualcosa dalla terribile passione che vi ho confessato, comunque sono contento di avervela fatta conoscere. Se nelle sublimi descrizioni delle miserie umane la miseria che mi affligge può trovare un qualche spazio, per favore, Signore, non rendetemi troppo odioso. Ho vissuto con la morte nell’anima e non ho più alcuna gioia da attendermi qua giù. Io mi sento colpevole e colpito da una fatalità terribile alla quale non posso sfuggire. Non sono forse abbastanza punito?
Ecco, sono cinque ore che scrivo e per la fatica la penna mi cade di mano; se ho potuto aiutarvi in qualcosa con queste pagine non rimpiango certo il tempo che ho impiegato a scrivervi, anche se questo non è il terribile motivo che mi ha messo la penna in mano.
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