giovedì 26 gennaio 2012
GAY E FRUSTRAZIONE
Chiarisco
in premessa che intendo parlare propriamente di “frustrazione”, non di
ansia o ancora più genericamente di disagio, cose peraltro che possono
essere legate alle frustrazioni. Naturalmente cercherò di condurre la
mia analisi con stretto riferimento ai gay.
L’etimologia
stessa del termine “frustrazione” derivato dall’avverbio latino
“frustra” = ”invano, inutilmente”, indica chiaramente che la
frustrazione è una forma di disagio conseguente al mancato conseguimento
di un risultato desiderato o sperato. La frustrazione è uno dei
possibili esisti del desiderio. La riduzione del senso di frustrazione
può derivare solo dal contenimento del bisogno o del desiderio entro
l’ambito del possibile e ancora meglio del probabile, in altri termini
solo una capacità di valutare ex ante la maggiore o minore
realizzabilità del proprio desiderio consente di limitare i suoi
eventuali esisti frustranti. È qui che entra in gioco la radicale
distinzione degli obiettivi in relazione al fatto che la loro
realizzazione dipenda o meno soltanto da noi. Chiarisco il discorso con
due classici esempi:
1) Il portare a termine di studi (obiettivo individuale).
2) Il trovare una reciprocità in un rapporto affettivo (obiettivo condiviso).
Si tratta di due obiettivi radicalmente diversi.
Il
portare a termine gli studi dipende solo all’azione, più o meno
condizionata, del singolo che può trovare ostacoli oggettivi ma che è
consapevole che il conseguimento dell’obiettivo (obiettivo individuale),
al di là dei condizionamenti esterni, dipende in modo essenziale dal
suo impegno e dalla sue capacità, in questo caso la frustrazione è
percepita essenzialmente come senso di “inadeguatezza”.
Il
trovare una reciprocità in un rapporto affettivo è invece un fatto
sostanzialmente connesso ad una relazione interpersonale, questo
significa che il conseguimento dell’obiettivo non dipende unicamente
dalla persona che sta puntando su quell’obiettivo ma anche da un’altra
persona che dovrebbe condividere quell’obiettivo (obiettivo comune). In
questo caso la frustrazione è percepita come “rifiuto”.
Non
è raro però che la frustrazione-rifiuto sia vissuta anche come
frustrazione-inadeguatezza sulla base della individuazione delle cause
del rifiuto nella propria inadeguatezza: “mi ha rifiutato perché non
sono all’altezza della situazione o perché ho sbagliato qualcosa”, alla
base di questi ragionamenti c’è comunque una visione non autenticamente
relazionale dei rapporti affettivi che sono interpretati come una specie
di partita a scacchi in cui, se non si sbagliano le mosse, si arriva
comunque a vincere la partita. In questo modo l’altro è visto come
oggetto da conquistare con una strategia che, se adeguata, porta
necessariamente al risultato. Questo modo di vedere le cose, pur essendo
in molti casi del tutto incongruo, appare assolutamente ovvio a chi lo
adotta come proprio modello interpretativo, al punto da ottenebrare
l’oggettività dei fatti. Mi spiego con un esempio concreto. Un ragazzo
gay che si innamora perdutamente di un ragazzo “oggettivamente” etero è
indotto a vedere il suo oggetto d’amore come gay represso e non come
etero e a pensare che con una opportuna strategia sarà possibile far sì
che prenda atto della sua presunta omosessualità repressa. In situazioni
del genere, il vivere la frustrazione come inadeguatezza può durare
anni e si può anche non arrivare mai a vedere le cose come stanno,
nemmeno quando l’altro si sposa.
È
fondamentale rendersi conto che alcune cose, per quanto desiderate
profondamente, sono di fatto impossibili. Un ragazzo etero non può
innamorarsi di un ragazzo gay, qualunque strategia usi il ragazzo gay la
cosa rimarrà comunque impossibile, bisognerebbe quindi mettere da parte
l’idea di essere inadeguati (non abbastanza belli, non abbastanza
solari, non abbastanza affidabili, troppo nevrotici ecc. ecc.) e
rendersi conto che il rifiuto non è un rifiuto della persona in quanto
tale ma una manifestazione della oggettiva o soggettiva impossibilità di
condividere gli obiettivi dell’altro.
Mi
fermo un attimo a riflettere sulla sensazione di essere rifiutati. La
sensazione di rifiuto che si prova quando l’altro non condivide il
nostro obiettivo è spesso vissuta, in particolare dai ragazzi gay
innamorati di ragazzi etero, come un rifiuto non genericamente della
persona ma della persona “in quanto gay”, piuttosto che come
impossibilità di condividere un obiettivo dell’altro, e questo rende
talora più difficile il processo di accettazione della omosessualità.
Aspettarsi che un ragazzo etero si innamori di un ragazzo gay non ha
senso ma aspettarsi che possa essere amico di un ragazzo gay è invece
realistico. Un ragazzo gay in queste situazioni è spesso portato al
tutto o nulla, e la cosa è anche comprensibile e un ridimensionamento
dell’obiettivo che consenta che possa essere realmente un obiettivo
condiviso è spesso difficile perché anche quando un ragazzo gay dovesse
accontentarsi di un rapporto di amicizia con il ragazzo etero di cui è
innamorato, resterebbe comunque frustrato nel suo “vero (anche se
irrealistico) obiettivo” che è quello di costruire una storia d’amore
condivisa. Comunque metabolizzare la sensazione di rifiuto di un
coinvolgimento affettivo e sessuale da parte di un ragazzo etero, per un
ragazzo gay è ancora tutto sommato un processo di presa di coscienza
della realtà non troppo traumatico, perché si tratta in fondo di
difficoltà oggettive e oggettivamente insuperabili.
La
questione si fa invece molto più delicata quando la sensazione di
rifiuto interviene nel rapporto con un altro gay, qui si tratta di un
rifiuto su basi soggettive che per la persona rifiutata è molto più
difficile da accettare ed è molto più frequentemente accompagnato da
sensazione di inadeguatezza. Entrano tipicamente in gioco in queste
situazioni meccanismi proiettivi per i quali si proiettano nell’altro le
proprie sensazioni e le proprie attese e non si capisce che l’altro è
oggettivamente un altro, con una diversa storia individuale, con altri
desideri e con un vissuto del tutto autonomo. In genere, quando un
ragazzo gay si innamora, la prima e assillante domanda che si pone
concerne l’orientamento sessuale dell’altro, se l’altro non è gay c’è
poco da fare, ma se l’altro è gay “sembra” che il problema sia risolto e
che la reciprocità non possa non esserci, è il tipico teorema “gay +
gay = amore” dietro il quale si nascondo meccanismi proiettivi molto
forti che ci fanno vedere nell’altro, in quando gay, un individuo
identico a noi. Che cosa può metterci al riparo da questi meccanismi
proiettivi che ci portano spesso alla frustrazione? La risposta è quasi
ovvia, si tratta della socializzazione. Più un ragazzo ha una vita
sociale e affettiva ricca, parlo soprattutto di amicizie, più ha
esperienza diretta della variabilità dei soggetti con i quali
interagisce e meno è portato a meccanismi proiettivi. Faccio un esempio
concreto. Un ragazzo gay che mi scriveva la sua prima imbarazzatissima
mail mi diceva: “non ho mai incontrato un ragazzo gay” per lui la
categoria “ragazzo gay” era ancora unitaria e non avendo riferimenti
precisi la completava proiettivamente vedendo nel “ragazzo gay” un altro
se stesso. Quello stesso ragazzo, dopo un po’ di giorni trascorsi con
serate passate in chat diceva: “mi sono reso conto che con tanti ragazzi
riesco ad andare d’accorso ma con qualcuno è come se ci fosse una
distanza più grande, pure se si tratta sempre di bravissimi ragazzi,
hanno un altro modo di ragionare, però con alcuni mi trovo veramente
bene.” Questi discorsi sono il tipico segno di una progressiva
socializzazione e quindi della progressiva diminuzione della tendenza
proiettiva. L’altro elemento chiave, oltre la generica socializzazione,
per prevenire i sensi di frustrazione è l’esperienza. Il primo rifiuto
può essere veramente traumatico, i successivi lo sono certamente di
meno, in sostanza la nostra psiche considera i primi traumi da rifiuto
come una specie di vaccinazione che attenua la virulenza dei successivi.
Il trauma da rifiuto porta spesso a comportamenti che appaiono come
tentativi di superare il rifiuto, ossia come delle insistenti richieste
di conferme da parte dell’altro, che ovviamente non fanno che rimarcare
la sensazione di rifiuto. Tutto questo, che appare come un comportamento
inadeguato, ha invece un senso preciso e serve alla “definizione” della
questione (mettere un confine o un limite) ossia al suo superamento
“definitivo”, al suo inquadramento. Va sottolineato che chi dopo un
primo rifiuto si ostina a chiedere ulteriori conferme si giudica per ciò
stesso inadeguato, ma è in realtà alla ricerca di un meccanismo di
frattura che crei le condizioni per passare oltre. In questo senso i
rifiuti non chiari, impliciti, detti e non detti, non fanno altro che
evitare questo momento di frattura e impedire di fatto fa definizione
della questione che resta perennemente irrisolta. Al di là della
percezione soggettiva, le vere situazioni di disagio si concretizzano
dove permane uno stato di costante incertezza e il tempo passa senza che
ci si possa rendere conto della presenza o dell’assenza di una vera
dimensione simmetrica in un rapporto affettivo.
Vorrei
aggiungere che le frustrazioni in campo affettivo sono spesso
complicate dalla presenza di altre frustrazioni, questa volta di matrice
strettamente individuale, connesse al mancato conseguimento di
obbiettivi legati alla ricerca e alla stabilizzazione del lavoro o al
successo negli studi, specialmente quando gli insuccessi sono percepiti
come derivanti da mancanza di impegno individuale nella soluzione di un
problema che, questo sì, sarebbe realmente risolubile. In genere le
frustrazioni dovute a sostanziale disimpegno a livello individuale
vengono mascherate da frustrazioni nei rapporti affettivi o di coppia
che sono ingigantite per farne il nucleo del proprio stato di disagio,
in questo caso si motivano gli insuccessi nella vita affettiva con
incapacità primarie, originarie, che è impossibile superare e che
incombono quasi come un destino ineluttabile, è il momento del “tanto io
sono così, sono fatto male, non ci posso fare niente …”. Le singole
frustrazioni, non riportate alle loro cause ma viste come espressione di
qualcosa di incontrollabile innescano idee con contenuti vagamente
depressivi che rischiano di pervadere la vita a vari livelli e di
mettere in moto circoli viziosi dai quali è difficile uscire.
L’esperienza insegna che i problemi si affrontano e si risolvono uno
alla volta. La cosa più sensata è evitare di dare al proprio cervello
modo di girare a vuoto sempre sui soliti contenuti scegliendo invece
obiettivi concreti a breve scadenza da realizzare concentrandosi
seriamente su di essi. L’antidoto alla frustrazione e il modo per
spezzare una serie di frustrazioni che rischia di innescare un
meccanismo depressivo è conseguire i primi successi, mette le basi per
guardare al concreto e a quegli obiettivi che sono realmente
conseguibili a breve con uno sforzo di impegno individuale, come fare un
esame, mandare un curriculum per la ricerca di un lavoro, non lasciare
che il tempo scorra quando ci sono problemi da affrontare subito. In
questa prospettiva l’essere gay può anche portare a delle frustrazioni
in campo affettivo difficili da accettare, ma piuttosto che avvitarsi su
se stessi nella ricerca di che cosa si è sbagliato, ha senso
concentrarsi su obiettivi individuali e concreti il cui conseguimento
può portare ad un netto aumento dell’autostima e quindi anche della
capacità di affrontare le frustrazioni nella vita di coppia con maggiore
concretezza e serenità.
Concludo
dicendo che le frustrazioni sono un elemento ineliminabile nella vita
di chiunque e che pertanto è necessario imparare a conviverci,
ricordandosi sempre che come ci è capitato di essere rifiutati ci sarà
certamente capitato e ci capiterà, più o meno coscientemente, di
rifiutare altre persone o altre forme di coinvolgimento, tutto questo
non ha nulla di patologico ma fa parte della normale amministrazione
della vita affettiva.
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