Corpi belli di morti, che vecchiezza non colse:
li chiusero, con lacrime, in mausolei preziosi,
con gelsomini ai piedi e al capo rose.
Tali sono le brame che trascorsero
inadempiute,
senza voluttuose
notti, senza mattini luminosi.
Interno di caffè. Frastuono. A un tavolino
siede appartato un vecchio. È tutto chino,
con un giornale avanti a sé, nessuna compagnia.
a quanto poco egli godé la vita
quando aveva bellezza, facondia, e vigoria.
Ma il tempo ch’era giovane lo crede
quasi ieri. Che spazio breve, che spazio breve.
Se n’era in tutto (che pazzia!) fidato:
“Domani. Hai tento tempo” – la bugiarda diceva.
Ricorda. Ogni occasione persa, adesso
suona come uno scherno al tuo senno demente.
di memorie, è stordito il vecchio. Appoggia
il capo al tavolino del caffè… s’addormenta.
Arriva per taluni un giorno, un’ora
in cui devono dire il grande Sì
o il grande No. Subito appare chi
ha pronto il Sì: lo dice e sale ancora
Chi negò non si pente. Ancora No,
se richiesto, direbbe. Eppure il No,
il giusto No, per sempre lo rovina.
Torna sovente e prendimi,
palpito amato, allora torna e prendimi,
che si ridesta viva la memoria
del corpo, e antiche brame trascorrono nel sangue,
allora che le lebbra ricordano, e le carni,
e nelle mani un senso tattile si raccende.
allora che le labbra ricordano, e le carni…
Non conobbi legami. Allo sbaraglio, andai.
A godimenti ora reali e ora
turbinanti nell’anima,
andai, dentro la notte illuminata.
M’abbeverai dei più gagliardi vini,
quali bevono i prodi del piacere.
Dire vorrei questo ricordo… Ma
s’è così spento… quasi nulla resta:
lontano, ai primi anni d’adolescenza, posa.
e la sera d’agosto (agosto fu?)…
Ormai ricordo appena gli occhi: azzurri, forse…
Oh, azzurri, sì! come zaffiro azzurri.
In questo monumento (una preziosa
opera, tutta marmo sienita)
di viole e di gigli ricoperto,
Eurione, il giovane bello, riposa.
Alessandrino, venticinque anni. Veniva, il padre,
da un’antica prosapia macedone, la madre
da una famiglia d’alabarchi. Ebbe cultura:
discepolo di Aristoclìto in filosofia,
e di Paro in retorica, studi Sacra Scrittura
a Tebe. Scrisse un’opera sul nomo Arsinoita
questa di lui ci resterà di certo.
Ma la cosa più rara è sparita:
la sua bellezza, un’apollinea epifania.
Accanto, dissero qualcosa: attento
mi rivolsi alla soglia del caffè.
E vidi, allora, lo stupendo corpo,
dove di sé faceva maggior prova Amore:
vi plasmava gioioso acconce membra,
innalzava, scolpita, la persona,
con emozione vi plasmava il viso,
del suo tatto lasciando come un arcano senso
sula fronte, sugli occhi, sulla bocca.
Ad ogni poco giura di cominciare una vita migliore.
Ma quando viene, coi consigli suoi, la notte,
e coi suoi compromessi e le lusinghe,
ma quando viene, con la sua forza, la notte
(il corpo anela e cerca), a quell’eguale
fatale gioia, ancora perso, va.
Era volgare e squallida la stanza,
nascosta sull’equivoca taverna.
Dalla finestra si scorgeva il vicolo,
angusto e lercio. Di là sotto voci
salivano, frastuono d’operai
che giocavano a carte: erano allegri.
ebbi il corpo d’amore, ebbi la bocca
voluttuosa, la rosata bocca
di tale ebbrezza, ch’io mi sento ancora,
mentre che scrivo (dopo sì gran tempo!),
nella casa solinga inebriare.
Il simpatico viso, un poco pallido.
Gli occhi castani sono come pésti.
Venticinque anni; ma ne mostra venti.
Ha nel vestire un non so che d’artistico – il colore,
forse, della cravatta, la foggia del colletto –
e vaga alla ventura nella vita,
ancora nell’ipnotico sonno di voluttà,
molto vietata voluttà goduta.
Di conservarle sfròzati, poeta,
anche se poche sono che s’arrestano,
le tue visioni erotiche.
Semicelate inducile nei versi.
Di possederle sfòrzati, poeta,
quando dentro la tua mente si destano,
la notte, o nell’avvampo del meriggio.
Rimirando un opale a metà grigio,
mi risovvengo d’occhi belli e grigi
ch’io vidi (forse vent’anni fa)…
. . . . .
Pe un mese ci amammo.
Poi sparì, credo a Smirne,
a lavorare. E poi non ci vedemmo più.
- Se vive – e il suo bel viso.
Serbali tu com’erano, memoria.
E più che puoi, memoria, di quell’amore mio
Recami ancora, più che puoi, stasera.
Certo, durare non poteva a lungo.
L’esperienza degli anni è maestra. Ma brusco,
troppo brusco l’arresto della Sorte.
Era la bella vita così corta!
Eppure, come forti gli aromi, e prodigioso
Il letto ove giacemmo, e a qual piacere
cedemmo i nostri corpi.
un’eco di giornate m’ha raggiunto,
la favilla di un rogo che ci riarse giovani.
Ho ripreso la lettera tra mano.
Ho letto, ancora, ancora. Sin che morì la luce.
per mutare pensieri,
mirando un po’ della città diletta, un poco
di moto della strada e dei negozi.
La beltà così fiso mirai
che la vista n’è colma.
Capelli da un ellenico simulacro spiccati
e tutti belli, pur sì scarmigliati,
cadono appena sulla fronte bianca.
Volti d’amore, come li voleva
Il mio canto… incontrati nelle notti
Di giovinezza, nelle mie notti, ascosamente…
Non li ho trovati più – così presto perduti –
i poetici occhi, quel pallido
viso… nell’annottare della vita…
per sorte, e li lasciai sì facilmente andare.
Poi li bramai con una febbre. Gli occhi
poetici, e quel viso pallido, e quelle labbra.
Non li ho trovati più.
Accanto alla vetrina tutta luce
del tabaccaio, stavano, tra molti.
Gli sguardi s’incontrarono, per sorte:
dissero la vietata bramosia della carne,
timidamente, dubitosamente.
Sul marciapiede, pochi passi d’ansia –
Sin che sorrisero, lieve accennarono…
il sensuoso tatto delle membra, congiunte
mani, congiunte labbra.
Di gioie mi profuma la vita la memoria
dell’ore che fu mia la voluttà che volli.
E di gioia profuma la vita mia lo schifo
d’ogni abitudinaria voluttà.
Corpo, rammenta, e non soltanto come
amato fosti, i letti ove giacesti.
Ma quelle brame che riscintillavano
chiare, per te negli occhi,
nella voce tremavano – e furono vane per sorte.
Ora che tuto affonda nel passato,
pare che a quelle brame tu ti sia
abbandonato… come scintillavano
negli occhi fisi su di te, rammenta,
e nella voce come tremavano per te, rammenta, corpo.
Marco, il giovane Lanis che amasti non è qui,
nella tomba ove rechi lacrime e a lungo sosti.
Il giovane che amasti l’hai più vicino a te
quando in casa ti chiudi e il suo ritratto miri,
quello che un poco serba di lui quant’ebbe pregio,
quello che un poco serba di lui quanto tu amavi.
tu conducesti il celebre pittore di Cirene:
e con quanta sottile abilità d’artista,
come vide l’amico tuo, voleva convincervi
che doveva dipingerlo proprio come Giacinto
(sarebbe divento più noto il suo ritratto).
la sua beltà. S’oppose risoluto, e gli disse
di non ritrarre punto né Giacinto Né altri,
ma il figlio di Ramètico, Lanis, alessandrino.
Anni di giovinezza, vita di voluttà…
Come ne scorgo chiaramente il senso.
Si formavano intenti di poesia,
si profilava l’àmbito dell’arte.
E gli impegni di vincermi e mutare,
che duravano, al più, due settimane.
Forse l’una di notte,
l’una e mezza.
Di là del legno di tramezzo.
Nel locale deserto noi due, soli
Lo rischiarava appena la lampada a petrolio.
E, stranito dal sonno, il cameriere, sulla porta, dormiva.
Già ci aveva la brama,
che divenimmo ignari di cautele.
scarse (luglio flagrava).
fra semiaperte vesti, celere
denudare di carni… il tuo fantasma
ventisei anni ha valicato. E giunge,
ora, per rimanere, in questi versi.
Questa camera, come la conosco!
Questa e l’altra, contigua, sono affittate, adesso,
a uffici commerciali. Tutta la casa, uffici
di sensali e mercanti, e Società.
c’era il divano: un tappeto turco davanti,
e accanto lo scaffale con due vasi gialli.
A destra… no, di fronte… un grande armadio a specchio.
In mezzo il tavolo dove si scriveva;
e le tre grandi seggiole di paglia.
Di fianco alla finestra c’era il letto,
dove ci siamo tante volte amati.
E lo lambiva il sole del pomeriggio fino alla metà.
per una settimana… Ahimè,
la settimana è divenuta eterna.
Ormai la loro voluttà vietata
è consumata. S’alzano, si vestono
frettolosi e non parlano.
Sgusciano via furtivi, separati. Camminano
Per via con una vaga inquietudine, quasi
Sospettino che in loro un non so che tradisca
Su che sorta di letto giacquero poco fa.
Domani, doman l’altro, o fra anni, saranno
Scritti i versi gagliardi ch’ebbero qui l’origine.
400 d.C.
Figlio d’un ragguardevole cittadino, fo vita
di teatro. Bel giovane variamente piacevole,
mi diletto di comporre talora, in lingua greca,
versi assai temerari. Li faccio circolare
alla macchia, s’intende. Gran Dio! Che non li vedano
quelli che in vesti nere cianciano di dovere.
Versi della squisita sensualità, che piega
verso gli amori sterili che la gente rinnega.
L’ha perso. Ed ecco che non fa che ricercare
In altre labbra, se gli riesca trovare
quelle labbra d’amore. In ogni amplesso nuovo
non fa che ricercare. Si vorrebbe ingannare
che il giovinetto è sempre quello, che a lui si dà.
esistito. Voleva – così disse – scampare
al marchio d’un morboso piacere, alle sue tare,
al marchio vergognoso di quelle voglie amare.
Era – diceva – ancora a tempo per scampare.
Esistito. Illudendosi, fantasticando, vuole
In altre labbra giovani quelle labbra trovare:
cerca di ridestare in sé l’antico amore.
Molto s’addolorarono nella separazione.
Non la vollero mai. Le circostanze, furono.
Uno di loro un giorno fu costretto ad andare
Via , per necessità – Nuova York, Canadà.
Il loro amore, certo, non era più lo stesso:
affievolito ormai il loro slancio, a gradi,
affievolito ormai il loro slancio, assai.
Ma la separazione non la vollero mai.
Le circostanze, furono. O forse si mostrò
Artista la Fortuna, separandoli prima
Che si spegnesse amore, che li mutasse il Tempo.
E l’uno resterà per l’altro il bel ragazzo
Ventiquattrenne: gli anni non passeranno mai.
Oppressivo paese dove lavora. Fa
L’impiegato in un grande magazzino.
Giovanissimo. Attende
Due mesi o tre,
due mesi o tre perché il lavoro cali,
per correre in città, tuffarsi subito
nel movimento, nel divertimento.
Oppressivo paese dove attende.
È piombato sul letto, stasera, preso d’amore. E tutta
arde la giovinezza nelle carnali brame,
nella tensione bella la bella giovinezza.
Poi, nel sonno, s’accosta la voluttà: nel sonno
vede e gode la forma, la sospirata carne…
Sempre ritorna alla taverna, dove
si conobbero, circa un mese fa.
Ha chiesto: nulla hanno saputo dirgli.
Dalle parole, ha inteso d’essersi imbattuto
In un soggetto ignoto, uno dei tanti
Volti d’efebi, equivoci
E ignoti, che passavano di là.
Pure, sempre ritorna, la notte, alla taverna.
Fissa immoto la soglia:
fino a stremare l’occhio fissa la soglia. Forse
verrà. Forse entrerà, stasera.
La mente s’è ammalata di lussuria.
Ancora stanno sulla bocca i baci.
Si macera nel diuturno desiderio la carne.
Il tatto di quel corpo è su di lui.
Vuole ancora congiungersi con lui.
Ma quali incurante, talora.
Il rischio lo conosce,
l’ha scontato. Chissà che quella vita
non lo porti a uno scandalo fatale.
In mezzo alla taverne e ai bordelli di Bèrito
mi vado rotolando. Non volevo restare
ad Alessandria, io. Tamide m’ha lasciato:
se n’è andato col figlio del prefetto, per prendersi
una villa sul Nilo, un palazzo in città.
Non potevo restare ad Alessandria, io.
In mezzo alle taverne e ai bordelli di Bèrito
Mi vado rotolando. In una vile crapula
Vivo, come che sia. Una cosa mi salva,
come beltà durevole, come aroma superstite
sulle mia carni; ed è che fu mio, per due anni,
Tamide, il giovinetto più splendido, fu mio,
e non per una casa o una villa sul Nilo.
Questo c’era di singolare in lui:
in mezzo a tutta la dissolutezza
e alla copiosa pratica d’amore,
e sebbene il contegno in consueta
armonia con l’età si componesse,
c’erano istanti –certo, estremamente
rari – che dava il senso
di quasi intatte carni.
tanto provata dalla voluttà,
stranamente evocava, per attimi, un efebo
che, un po’ goffo, all’amore
la prima volta il casto corpo cede.
Fin dalle dieci e mezza stava nel caffè.
L’aspettava: fra poco, certo sarebbe entrato…
Mezzanotte: aspettava ancora. L’una
E mezza: s’era vuotato
il caffè, quasi tutto.
E si stancò di leggere i giornali
Macchinalmente. Dei tre miseri scellini
Ne restò uno: in tutta quell’attesa
Spese gli altri in liquori e caffè.
E fumò tutte le sue sigarette.
Lo stremava l’attesa tanto lunga. Da solo,
così, per ore e ore…
lo presero le riflessioni amare
della vita sviata.
stanchezza, crucci, riflessioni dileguarono.
vinto sessanta lire nella bisca.
squisite, il loro sensuoso amore
s’avvivano, s’accendono, s’esaltano
con le sessanta lire della bisca.
andarono – non già alle loro onorate
case (non li volevano, del resto, più): in un luogo
che sapevano loro, e molto riservato,
di malaffare. Andarono, e chiesero una camera,
e bevande costose, e bevvero, di nuovo.
Finite le bevande costose – erano prossime
Ormai le quattro –
nell’amore s’immersero felici.
Si sdegnò del tutto. Una tendenza erotica
anche troppo vietata, anche troppo spregiata
(insita tuttavia), ne fu cagione vera.
Puritana e severa era la società.
Perse gradatamente tutti gli esigui averi,
e anche il posto, in seguito, e la riputazione.
S’avvicinava ai trenta. Nessuna attività
Per un anno di seguito (confessabile almeno).
A sbarcare il lunario ci riusciva, talora,
con qualche senseria considerata infame.
Si rischiava d’esporre parecchio il proprio nome,
mostrandosi sovente con un soggetto simile.
Giova fare parola, qui, della sua bellezza.
Se si guardi in un’altra prospettiva, egli allora
apparrà simpatico: creatura schietta, autentica
d’amore apparirà: quasi inconscio, di là
dalla riputazione e dall’onore, pose
della sua pura carne la pura voluttà.
era la società. E commentava, a vanvera.
Anima, e ora come puoi lavora.
Un godimento mutilo lo macera.
Condizione snervante.
Ogni giorno l’amato viso bacia,
e le sue mani sono là, sulle squisite membra.
Mai, nella vita, amò con tanto forte
febbre. Eppure gli manca la pienezza
dell’amore; gli manca la pienezza
che mutua brama e pari ardore esige.
Uno soltanto né passiva preda).
Disoccupato, inoltre: e anche questo fa molto.
Certe piccole somme
Ottiene a stento in prestito
(talora quasi mèndica). Vivacchia.
Bacia le lebbra adorate: sul corpo
Eccelso, che si limita (l’avverte) a consentire,
di voluttà di pasce.
E beve, e fuma. Beve e fuma.
E tutto il giorno si trascina nei caffè:
accorato trascina lo struggimento della sua beltà. –
Anima, e ora come puoi lavora.
D’un marinaio d’un’isola egea,
povero, miserabile, era figlio.
Lavorava da un fabbro. Si vestiva
Male; pietose, rotte, le scarpe da lavoro.
Le mani sporche di ruggine e d’olio.
L’assaliva una voglia peregrina
D’una cravatta fina,
d’una cravatta per la festa, o se in vetrina
aveva visto, e tanto l’invaghiva,
una bella camicia azzurrina,
il corpo per un tallero o due prostituiva.
La gloriosa Alessandria ebbe più sopraffina
Bellezza, più perfetto ragazzo. Andò sciupato:
certo, di lui non fecero né statua né pittura.
Rimase in quella squallida bottega, confinato:
e molto presto la fatica dura
e la crapula grama lo trassero a rovina.
È tornato al caffè dove andava, con lui.
Qui, l’amico gli disse, proprio tre mesi fa:
“Non abbiamo un centesimo. Due poveri ragazzi
Siamo – precipitati in infimi locali.
Io te lo dico chiaro: con te non vado più
Avanti. Vuoi saperlo? C’è un altro che mi vuole”.
Fazzoletti di seta. Per riprenderselo, fece
Fuoco e fiamme: trovò venti lire: L’amico
Di nuovo andò da lui, per quelle venti lire.
E, inoltre, per la loro vecchia amicizia, il loro
Antico amore, il loro sentimento profondo.
Era un bugiardo, “l’altro”: una vera canaglia:
gli aveva fatto solo un vestito, anche quello
contro voglia, per forza, dopo mille preghiere.
Non vuole più i vestiti, non vuole i fazzoletti
Di seta, né le venti lire, né venti soldi.
Quasi una settimana. Domenica alle dieci.
candidi fiori e belli, stavano così bene
a quei suoi ventidue anni, alla sua beltà.
Necessità del pane) è tornato al caffè
Dove andava con lui. Che coltellata al cuore,
quell’oscuro caffè dove andava, con lui.
Aveva , in quell’ufficio,
un posto trascurabile, pagato male
(circa otto lire al mese; con gl’incerti).
Uscì, finito quel lavoro squallido
Che lo teneva tutto il giorno chino.
Uscì: le sette. Camminava, adagio,
bighellonava per la strada. – Bello,
e interessante: egli appariva giunto
alla resa dei sensi più matura.
Ventinove anni aveva finito il mese prima.
Viuzze miserabili che portavano a casa.
Pieno di cianfrusaglie dozzinali
Per perai, di basso costo, vide
Là dentro un viso, vide una figura
che spinsero forte a entrare. Ecco: voleva
vedere fazzoletti colorati.
E del prezzo; con voce soffocata
E quasi spenta per il desiderio.
E così, le risposte:
assorte, a voce bassa,
con un consentimento tacito.
Era lo scopo: un incontro di mani
Là, sopra i fazzoletti; uno sfiorare
Dei visi, della labbra, come a caso:
tatto di membra, un attimo.
non s’avvedesse, immobile in fondo al magazzino.
“Che filtro mai trovare, distillato
da erbe di malìa?” – un sensuale disse.
“Che filtro, distillato sulle formule
d’antichi magi ellencio-siriani,
mi potrà riportare, un giorno solo
(se più oltre non vada il suo potere),
un’ora sola, i miei ventitré anni?
riportare l’amico mio, di ventidue
anni, la sua beltà, l’amore?
d’antichi magi ellencio-siriani,
mi potrà riportare, in armonia con questo
ricorso, anche la nostra cameretta d’allora?”
Quell’anno non trovò da lavorare.
Gli davano da campare
le carte, i dadi, prestiti in denaro.
Cartoleria, per tre sterline al mese.
Ma rifiutò senza incertezza alcuna.
Non faceva per lui. Quel salario da usura
A lui, venticinquenne, e di buona cultura!
Ma con le carte e i dadi non cavava le spese,
nei caffè della sua classe, volgari
sebbene lesto al gioco, con avversari sciocchi.
Quanto ai prestiti, poco da scialare:
un tallero, più spesso mezzo; e da qualcuno
si riduceva a prendere uno scellino, e basta.
si rinfrescava ai bagni, nuotando nel mattino,
quando scampava ai torbidi delle notturne imprese.
il vestito che aveva, color cannella chiara
che il tempo aveva fatto scolorare.
vi vedo. Dall’immagine vostra sparì – per una rara
magia – l’abito stinto color cannella chiara.
nell’attimo che via da sé gettava
le vesti indegne e quella biancheria rattoppata.
Restava nudo, irreprensibilmente bello: una meraviglia.
Spettinati, all’indietro, i suoi capelli;
e le carni abbronzate, appena un poco,
da quella mattutina nudità, ai bagni, e sulla riva.
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