domenica 14 settembre 2014

QUINTO LUTAZIO CATULO OMOSESSUALE

Per l’anno 102 a.C. furono eletti consoli Caio Mario (per la quarta volta) e Quinto Lutazio Catulo. Dopo tre tentativi di ottenere il consolato (per il 106, per il 105 e per il 104) finalmente Lutazio Catulo giungeva alla massima carica dello stato.
I tempi erano particolarmente difficili per i Romani, che dal 113 combattevano una durissima guerra contro una coalizione delle tribù germaniche dei Cimbri, dei Teutoni e degli Ambroni. L’esercito romano aveva subito pesantissime sconfitte: Gneo Papirio Carbone era stato battuto nel 113 a Noreia, nel Norico, nel tentativo di fermare le migrazioni germaniche, nel 109 Marco Giunio Silano al comando di quattro legioni era stato battuto nei territori dei Sequani, nel 107 Lucio Cassio Longino, con sei legioni e 6.000 cavalieri, aveva bloccato a Tolosa la coalizione germanica che era riuscita a penetrare nella Gallia meridionale romana, ma Longino commise l’errore di avventurarsi nel territorio nemico, le sue legioni furono massacrate e lui stesso perse la vita, nel 105 il console Gneo Mallio Massimo e il proconsole di Gallia Quinto Servilio Cepione furono battuti per ben due volte nonostante fossero a capo di sette legioni, portate immediatamente a nove dopo la prima sconfitta.
Il numero delle legioni impiegate e il livello dei comandanti dimostra chiaramente che Roma vedeva nella coalizione germanica un pericolo almeno pari a quello rappresentato da Annibale nella seconda guerra punica. Tuttavia l’Italia vide subito dopo un inatteso periodo di tranquillità perché la coalizione germanica si diede a saccheggiare la penisola iberica.
Nel 102 tuttavia Cimbri e Teutoni si organizzarono per invadere l’Italia. I Cimbri sarebbero entrati in Italia dalle Alpi Retiche (Brennero), altri gruppi avrebbero dovuto entrare da nord-ovest o dal mare. I Teutoni che si trovavano nella Gallia Narbonese puntavano verso le Alpi, Caio Mario li attese alle Aquae Sextiae (Aix en Provence).
Un gruppo avanzato di Teutoni tentò un attacco alle posizioni romane ma 30.000 Teutoni caddero sul campo, quindi Mario tese un’imboscata al grosso dell’esercito dei Teutoni, 100.000 Teutoni furono uccisi e quasi altrettanti furono catturati.
Quinto Lutazio Catulo, nel frattempo, cercava di contenere i Cimbri alle Alpi Retiche, in modo che non invadessero il territorio tra le Alpi e il Po. Fermare i Cimbri appariva però un’impresa impossibile. Caio Mario ebbe notizia a Roma dell’andamento delle operazioni militari di Catulo e si precipitò per unirsi al collega e arginare il rischio di invasione.
Nell’estate del 101 a Vercelli, in una località detta Campi Raudii avvenne lo scontro decisivo. Furono uccisi 65.000 Teutoni ma si parlò anche di 100.000, tutti i sopravvissuti furono ridotti in schiavitù.
Chiediamoci ora chi fosse il console Quinto Lutazio Catulo che ebbe un ruolo così importante, accanto a Caio Mario, nel salvare l’Italia dall’invasione germanica. Era nato molto probabilmente nel 150 a.C., aveva quindi all’epoca degli scontri delle Aquae Sextiae poco meno di 50 anni. Al suo tempo, essere console non significava solo ricoprire un ruolo politico ma anche e forse soprattutto avere un ruolo militare di altissima responsabilità nella difesa della Repubblica. Tuttavia, se guardiamo da vicino la vita di questo comandante, che ebbe nelle sue mani il destino di Roma, ci accorgiamo che non era affatto un rude soldato, ma era un uomo di cultura raffinata, ottimo conoscitore del greco, autore di opere storiche e memorialistiche e di epigrammi in cui si sente l’influsso dei poeti ellenistici e soprattutto di Callimaco.
Purtroppo solo due epigrammi di Lutazio Catulo ci sono stati conservati, uno da Aulo Gellio nelle Noctes Attiace, XIX, 9, 14, e l’altro da Cicerome nel De natura deorum I, 79. Entrambi gli epigrammi conservati sono di contenuto omosessuale. Il primo dei due recita:
“Il cuore mi è fuggito; come al solito, credo; da Teotimo
è andato. Proprio così, è là che ha il suo rifugio.
Che mai accadrebbe se non gli avessi fatto divieto
di dar ricetto a quel fuggiasco, se non gli avessi imposto di scacciarlo?
Andrò a cercarlo. Ma d’essere io stesso catturato
ho gran paura. Che fare? Dammi tu, Venere, un consiglio.”[1]
L’altro Epigramma, quello citato da Cicerone, va contestualizzato. Così dunque si esprime Cicerone:
“Tanto grande è l’istinto naturale che nessun uomo vorrebbe essere simile se non ad un altro uomo (ed una formica ad una formica).
Ma a quale uomo però? Quanti nella massa sono veramente belli? Durante il mio soggiorno ateniese, fra gli efebi, se ne trovava a malapena uno per ogni plotone che lo fosse veramente: capisco perché ridi, ma la cosa sta veramente così. Inoltre noi che, con l’approvazione degli antichi filosofi, ci compiacciamo di stabilire dei rapporti di intimità con dei giovinetti, troviamo spesso gradevoli anche dei veri difetti. Ad Alceo “piace un neo sul polso del suo favorito”. Si obietterà che un neo è una macchia della pelle: ma ciò non toglie che a lui sembrasse uno splendore. Quinto Catulo, padre del nostro attuale collega ed amico, amava il suo concittadino Roscio e scrisse anche dei versi in suo onore:
Mi ero fermato per caso a salutare il sorgere dell’aurora
quando improvvisamente alla mia sinistra comparve Roscio
Perdonatemi, o Celesti, se oso affermare che
un mortale mi parve più bello di un dio.
Per lui dunque Roscio era più bello di un dio. Eppure era, ed ancora lo è, terribilmente strabico. Ma che importanza ha se questo difetto a lui sembrava gustoso e pieno di grazia?”[2]
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[1] Aufugit mi animus; credo, ut solet, ad Theotimum
devenit. Sic est, perfugium illud habet.
Quid, si non interdixem, ne illunc fugitivum
mitteret ad se intro, sed magis eiceret?
Ibimus quaesitum. Verum, ne ipsi teneamur
formido. Quid ago? Da, Venus, consilium.
[2]… est enim vis tanta naturae, ut homo nemo velit nisi hominis similis esse — et quidem formica formicae. [79] Sed tamen cuius hominis? Quotus enim quisque formonsus est, Athenis cum essem, e gregibus epheborum vix singuli reperiebantur — video, quid adriseris, sed ita tamen se res habet. Deinde nobis, qui concedentibus philosophis antiquis adulescentulis delectamur, etiam vitia saepe iucunda sunt. Naevos in articulo pueri delectat Alcaeum; at est corporis macula naevos; illi tamen hoc lumen videbatur. Q. Catulus, huius collegae et familiaris nostri pater, dilexit municipem tuum Roscium, in quem etiam illud est eius:
constiteram exorientem Auroram forte salutans,
cum subito a laeva Roscius exoritur.
pace mihi liceat caelestes dicere vestra:
mortalis visus pulchrior esse deo.
Huic deo pulchrior; at erat, sicuti hodie est, perversissimis oculis: Quid refert, si hoc ipsum salsum illi et venustum videbatur?
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